IL TARTUFO NERO DEL MONREGALESE

Il respiro delle brume autunnali che accarezza la terra prima di perdersi tra le ali di un vento fresco ma non ancora freddo. La luce del giorno che si fa strada tra i noccioli e i carpini fino a bucare, minuto dopo minuto, quella pellicola trasparente che pareva voler cristallizzare l’istante. 

Muoversi nella collina monregalese quando l’autunno e l’inverno si rincorrono a vicenda senza prevaricare l’uno sull’altro, consente di toccare con mano un angolo di mondo naturale che spesso si è soliti trascurare. Là dove i coltivi incontrano i primi boschi, negli anfratti più freschi e ombrosi dove la collina di Mondovì  Piazza piega verso oriente in direzione di Vicoforte, esiste in effetti un microcosmo di sapori e saperi che merita di essere guardato e vissuto un passo dopo l’altro, partecipando, magari, alla ricerca del pregiato Tartufo Nero locale, prelibatezza spesso sottovalutata da cuochi e consumatori.

E così ci si può ritrovare ai margini della città, protetti dall’abbraccio di un noccioleto, indecisi sul da farsi. Perché il tartufo, si sa, non è fungo di superficie. Non colpisce lo sguardo come ovoli e porcini, non lascia tracce o segni visibili. Ed è per questo che la sua ricerca non può avvenire in solitaria. Quasi in parallelo con la propria stessa esistenza, figlia di una simbiosi tra le micorrize e l’apparato radicale delle piante, il tartufo può essere ritrovato soltanto grazie ad un’altra straordinaria simbiosi naturale, quella tra l’uomo (trifolao) e il suo fedele cane da ricerca, spesso un simpatico lagotto. Un’intesa quasi mistica quella tra i due, che consente di individuare prima e di estrarre poi un fungo pregno di odori e sapori che rimandano all’alta cucina ed esaltano i piatti della tradizione piemontese.

Assistere alla ricerca del Tartufo Nero del Monregalese, allora, rappresenta una straordinaria esperienza contemplativa prima ancora che fisica o gastronomica, dove il dialogo tra uomo e animale squarcia l’aria e stupisce per l’inattesa complicità. Il lagotto corre veloce apparentemente senza meta, dribbla i tronchi e gli alberi, salta qualche fosso prima di ritornare sui propri passi e andare a colpo sicuro alla base di un nocciolo. Una breve ricompensa e poi via, di nuovo, a leggere l’aria, a fiutare il terreno, a scavare con muso e zampe. L’atavica bellezza della natura nella magia del recondito, nell’eleganza dei gesti, nell’unicità del rapporto. Ma soprattutto l’imperdibile opportunità di imparare a guardare il territorio con occhi diversi, apprezzando ancora di più il valore degli ingredienti più preziosi della cucina locale.

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